Lo studio di Fannie
Siamo nel 1896, a Washington d.C.
In un quartiere leggermente decentrato della città esiste uno studio fotografico. Lo ha creato, in un’ala dell’abitazione della famiglia, undici anni prima, una giovane donna di 21 anni, Frances Benjamin Johnston. Era tornata da poco da un soggiorno di due anni a Parigi, dove si era recata per studiare arte, perfezionandosi in Europa dopo i primi studi condotti in America. Ma Parigi le aveva evidentemente ispirato desideri e aspirazioni non così conciliabili con la rigidità dei costumi e delle tradizioni U.S.A, soggette, nonostante più di un secolo di indipendenza, alle rigorose norme morali vittoriane, e così Frances, tornata nella sua città, decide di “mettersi in proprio”, utilizzando, per esprimere la propria ricerca e la propria voglia di costruire se stessa, uno degli strumenti più nuovi a disposizione: la fotografia.
È brava, molto, ha una sensibilità fuori dal comune per entrare in contatto con i propri modelli: il ritratto è il genere che predilige, anche se non l’unico che frequenta. Molti iniziano a recarsi nello studio di questa donna vivace, con un volto segnato da un naso importante temperato da occhi che spesso sanno sorridere apertamente. E non sono persone qualunque: artisti, scrittori, banchieri, politici. Politici molto importanti, con le loro mogli al seguito: siamo a Washington, la capitale.
Ma per Francis il lavoro da fotografa è di più. Ha bisogno d’altro. Ha bisogno di entrare in un rapporto conflittuale con il mondo che la circonda, un mondo di cui ha bisogno, ma nel quale ci sono troppe cose che non funzionano. Il ruolo della donna in quella società, prima di tutto. La donna vittoriana è rigorosa, dedita alla casa, al marito, ai figli. Veste riccamente ma onestamente. Non si concede nulla. La donna vittoriana è seria. Certo, sono parecchie le donne che in quegli anni stanno strette in questa gabbia, e iniziano a incrinare questa immagine. Si formano i club femminili, le suffragette iniziano a scendere in piazza, su alcune riviste compaiono immagini di donne più libere, capelli sciolti e lunghi, scalze: le Gibson girls, che vanno tanto di moda a un certo punto, facendo correre fremiti lungo la schiena di chi le contempla sulle riviste. Ma sono disegnate da Charles Gibson, un uomo. Appunto.
Frances vuole altro. Vuole giocare una partita complessa, che porti in primo piano una figura di donna che si libera delle costrizioni tradizionali, ma nello stesso tempo vuole affermare se stessa come artista. Sono due i volti che deve creare: donna e artista. Senza rinunciare però all’ironia e all’autoironia, propria di tanti suoi amici e amiche attori, con i quali ama mettere in scena, nel proprio studio, dei tableaux vivants. E tra questi amici, uno in particolare, Mills Thompson, un giovane illustratore che, tra l’altro, aveva creato un manifesto pubblicitario del suo studio fotografico, amava truccarsi nei modi più svariati, anche in abiti e atteggiamenti femminili. E allora aggiungiamo un terzo aspetto: donna, artista, che vuole giocare con le imposizione di genere.
E così torniamo al 1896. Fannie, come la chiamano gli amici e le amiche con le quali si ritrova nel suo studio tutti i mercoledì pomeriggio a prendere un tè, questa volta decide di giocare con se stessa. La partita è politica, sociale, culturale. Ma deve essere condotta con ironia.
Fannie sa che, prima di tutto, l’immagine che deve creare è quella dell’artista. Si affaccia alla porta del suo studio: è il suo mondo. Una stanza grande, un’ampia finestra si apre nella parete a nord; davanti ai vetri la pesante cortina che ha imparato a manovrare per garantirsi gli effetti di luce desiderati. Fotografare una persona richiede tempo. Le persone ritratte tornano nel suo studio almeno cinque o sei volte, prima di arrivare al ritratto definitivo. Un camino su un altro lato della stanza, e sulla mensola che contorna il camino, alcuni ritratti delle persone illustri da lei ripresi. Tutti uomini. Uomini importanti. Ha ritratto anche numerose donne, certo, e probabilmente quei ritratti sono appesi alle pareti, tra le stampe giapponesi e i disegni degli amici. Poi oggetti, che raccontano i suoi interessi e curiosità: ceramiche, strumenti musicali, decori europei, oggetti dei nativi americani. Lo studio è il suo volto d’artista. D’altra parte sono innumerevoli i pittori che si sono raffigurati nel proprio studio, con i pennelli in mano, dietro le tele, mentre studiano le modelle (nude) che hanno di fronte e contemporaneamente ammiccano allo spettatore. Fannie non ha dubbi: lo studio deve essere protagonista della fotografia. Bisogna dire a tutti che lei è, prima di tutto, un’artista, una fotografa affermata. Che il suo genio consiste nel comporre immagini, nel raccogliere elementi disparati per unirli in un’armonia che racconti una storia.
Il camino con le fotografie è il posto giusto dove sistemarsi, non ha alcun dubbio.
Ma poi, come usare il proprio corpo, la propria immagine?
Fannie si è già scattata alcuni autoritratti. Uno poche settimane prima: ha voluto ritrarsi nei panni di una perfetta donna vittoriana. Probabilmente voleva studiare in prima persona come si dovevano atteggiare e sentire le mogli e le figlie dei banchieri e dei presidenti che venivano a posare da lei. Per cui eccola avvolta in una stola di pelliccia, con un cappello piumato, uno sguardo dritto in camera e la mano guantata che sorregge delicatamente il mento. Ora vuole andare nella direzione opposta. Una new woman, immagine femminile che stava emergendo proprio in quegli anni? Una donna che si appropria degli attributi maschili? Una donna travestita da uomo?
Non è possibile, Fannie non può rinunciare al suo essere donna, ma deve giocare con l’essere nello stesso tempo donna e uomo, immaginando una figura che superi confini e barriere, che rompa, mettendo anche in ridicolo, gli schemi che la società impone all’essere uomo e all’essere donna. Rompere schemi, mostrandone il ridicolo.
Cosa è proibito a una donna? Cosa è obbligatorio per un uomo? Bere, fumare, avere uno sguardo deciso, accavallare le gambe, essere noncurante di chi ti sta intorno.
Il gioco è fatto. Fannie disegna la scena nella propria mente. Ma non rinuncia agli abiti femminili, a quella scandalosa sottoveste che con il suo biancore dialoga con gli sfondi dei ritratti illustri posati sulla mensola, deve mostrare i polpacci inguainati un paio di calze di spesso cotone (solo le ballerine del Moulin Rouge si permettono simili posizioni). E poi immagina la posizione del volto: guardare in faccia lo spettatore suonerebbe come una sfida troppo diretta. Ma se allo spettatore mostra il profilo, con il suo bel naso su cui si disegna una evidente gobba sinuosa, agisce semplicemente come se lo spettatore non ci fosse. Fannie é una new woman che non richiede né approvazione né ha bisogno di sfidare nessuno; pienamente compresa in sé, soddisfatta di sé, artista, essere umano, che gode della propria creatività (certo, faticosa, è pienamente e seriosamente immersa nel proprio pensiero), e dei piaceri materiali che l’esistenza può offrire. Che importa se gli altri ti giudicano? Gli altri non esistono.
Esiste Fannie, con la sua ricerca, con il suo pensiero, ma anche, e lo si può perfettamente intuire nella combinazione degli oggetti che la circondano, il vaso appeso, la brocca posata a terra, e soprattutto quel portacandele dalle forme diaboliche sconclusionato e malinconico, con l’ironia e l’autoironia necessaria per chi è, nell’anima, un’artista.